Paolo Pibi

"YOU CAN’T KILL TIME WITH YOUR HEART"

Silvia Mei, Narcisa Monni, Veronica Paretta, Vincenzo Pattusi, Paolo Pibi e Giuliano Sale

Silvia MeiNarcisa MonniVeronica ParettaVincenzo PattusiPaolo Pibi e Giuliano Sale, sono loro i sei artisti protagonisti di Non puoi uccidere il tempo col cuore, la mostra, prodotta dal Consorzio Camù e curata da Sonia Borsato che sarà ospitata nella Sala delle Volte del centro comunale d’arte EXMA dal 5 marzo al 22 maggio.

Con un allestimento progettato da Salvatore Campus, l’esposizione è un’occasione per provare a tirare le fila di una generazione artistica, quella dei nati tra la fine degli anni 70/inizio 80, viaggiatori onnivori, conoscitori del mondo, ma legati a un’origine, che la si viva o la si rinneghi. Un ritratto generazionale dalla ricca personalità pittorica, un panorama adulto, completo e complesso dove è possibile cogliere specificità pur nella coralità. Attraverso loro assistiamo a un grande ritorno, una autoritaria riconferma della pittura.

Mai veramente assente, sempre costante a tracciare un percorso, la pittura adesso domina la scena – internazionale e locale – con un doppio passo, doppia presenza: Corpo materico e Corpo concettuale.

Non puoi uccidere il tempo col cuore propone i lavori di sei artisti, sei autori che si confrontano con il mezzo pittorico. Anagraficamente tutti molto vicini – dalla fine degli anni settanta alla prima metà degli anni ottanta – subiscono, come è facile immaginare, le stesse suggestioni culturali, si muovono in un contesto sociale simile, coerente, eppure reagiscono con grande autonomia espressiva, ciascuno trovando una sua personale chiave di interpretazione della realtà.

Le opere oscillano da dimensioni importanti, a volte superando i tre metri, a dimensioni ridotte, di soli trenta cm, creando una fluttuazione nel visitatore, che può e, anzi, deve muoversi nello spazio, allontanandosi e avvicinandosi costantemente alle opere, come se lui stesso fosse coinvolto in una performance, una danza. 

La mostra è realizzata con il patrocinio del Comune di Cagliari e il contributo della Fondazione di Sardegna.

ATTIVITÀ COMPLEMENTARI

numerose anche le attività collaterali in dialogo con la mostra, tutte legate alla musica:

L’inaugurazione e il finissage – il 5 marzo e 22 maggio – vedranno un DJ set di Martinikka curato da Radio X, mentre, in un’ottica di sperimentazione e di “prove di contemporaneo”, a cura di Alessandro Milia, un sabato al mese alcuni musicisti dialogheranno con la mostra ed in particolare:

– sabato 26 marzo, Gian Marco Medda, creazioni originali per percussioni, diversi setup nello spazio

– sabato 23 aprile, Emiliano Amadori, immagini per contrabbasso

– sabato 14 maggio, Giacomo Salis, creazioni originali per percussioni, diversi setup nello spazio

LA MOSTRA 

Non puoi uccidere il tempo col cuore mette in dialogo autori, incidentalmente sardi, radicalmente isolani. Un’occasione per provare a tirare le fila di una generazione artistica, quella dei nati tra la fine degli anni 70/inizio 80, ironicamente ribattezzati “generazione ryan-air” data l’abitudine al continuo movimento per studio, lavoro, salute, curiosità, relazioni. 

Stirpe di viaggiatori onnivori, però segnata da un difficile rapporto con la stanzialità e la convivenza forzata con una sorta di “mancanza”, una durevole nostalgia per le possibilità inesauste e il confronto costante con l’altrove. 

Sono loro a farsi cantori di un ritorno, una calata nella carne; loro a colmare l’assenza, loro a registrare, in tutte le forme che la pittura consente, frammenti di un adesso che va declinandosi dubbioso, con opere mai indifferenti alle emozioni subite dal corpo. 

L’esito è una collettiva di nuda, scorticata sincerità, un ritratto generazionale dalla ricca personalità pittorica, un panorama adulto, completo e complesso dove è possibile cogliere specificità pur nella coralità. 

Soprattutto emerge la restituzione di un pensiero contemporaneo che ha captato l’urgenza di un cambio di passo. Non possiamo tornare a essere quelli che eravamo… non avrebbe senso, non sarebbe giusto. 

Dopo mesi di “prigionia domestica”, di alibi e sotterfugi emotivi, provare, ora, a lasciarsi coinvolgere in un dialogo nuovo, franco, spietato quasi.

Prima di tutto con lo spazio. In un “vuoto” che non spaventa ma concede, il fruitore può concedersi quanto è mancato ultimamente: ascolto, incontro, possibilità, ricostruzione. 

Nella simulazione di una piazza, l’allestimento non nasconde nulla e nulla addolcisce, si limita a definire i margini di nuove presenze. 

Poi dialogo con le opere. Guardarle, lasciarsi guardare. Avvicinarle per goderne i particolari, allontanarsi per dominarne l’insieme. Una danza. Il Corpo ritrova lo spazio. 

Sono due atti performativi che si incontrano, due creazioni dilatate nell’asse temporale che hanno trovato il modo di congiungersi. 

Un singolar tenzone da cui uscire vivificati. Cambiati. In discussione.

Perché di questo abbiamo bisogno: di sentirci, di nuovo, vibranti.

NOTE CRITICHE

Il titolo. David Foster Wallace aveva il dono delle parole. Con la sua caleidoscopica produzione letteraria DFW ha illuminato un’intera generazione di lettori e sicuramente altre a venire. 

Non a caso, dunque, elaborando il sorgere del 2022, è emersa dai ricordi una citazione da Brevi interviste con uomini schifosi: Non puoi uccidere il tempo col cuore.

È tratta dal racconto Per sempre lassù. Parla di un ragazzino, una giornata estiva… e molto, molto altro, in verità. 

Ma adesso, decontestualizzata, parla di noi. 

Foster Wallace riesce sempre a insinuarsi nelle pieghe sbriciolate di quel vissuto che, forse, vorremmo tacere agli altri… ma questa frase, all’improvviso, è parsa uno schiaffo.

Enigmatica, blindata, accartocciata su se stessa… eppure lampante proprio come una mano che arriva tesa su una guancia indifesa. 

Disarmata come metaforicamente è stata la nostra vita negli ultimi lunghissimi mesi. 

Le realtà più importanti sono spesso le più difficili da capire e da discutere; si resta sospesi in un senso di non-detto, una pozza umida di ambiguo malessere, di scomodo languore… un vago sentire come di vestiti di una taglia sbagliata. 

Così una frase che sembra innocente, ma innocente non è, fa suonare una intera orchestra di campanellini interiori ai quali non sappiamo sottrarci, e con grazia rimette sul tavolo questioni irrisolte.

Facendo slalom tra le parole si desta la consapevolezza dei giorni rubati alla normalità, del tempo che ha conosciuto uno scorrere differente, lento e impietoso. Giorni in cui siamo stati messi davanti a noi stessi, alle nostre fragilità, paure. 

Giorni preclusi, rinchiusi, confusi in cui abbiamo conosciuto la stasi e l’inerzia; figli di una società performante, abbiamo diluito il produrre per affrontare un vuoto senza nome.

Parafrasando Anatomia del mondo di John Donne, abbiamo vissuto, in proporzioni diverse ma comunque concrete, una deflagrazione che ha frantumato l’ordine costituito delle cose, ha logorato ogni coesione, ha provato duramente ogni rapporto.

In questo tempo senza sponde – dilatato o compresso in situazioni abitative non sempre accoglienti- c’è stato un grande assente, il Corpo. 

Il corpo. Corpo carnale e Corpo sentimentale; Corpo singolare che adempie a doveri e Corpo collettivo che impatta su una modifica sociale. 

Sottratto al pubblico spazio, privato del tocco reciproco, portatore di misterioso contagio, in oblio dietro schermi di computer la cui precarietà ancora non sappiamo se chiamare reclusione o apertura, sentendo tutta la fragilità di questa disarmonia, il Corpo ha assistito alla sua negazione. 

Se, come dice Jean Luc Nancy, i nostri corpi non sono se non dove vengono toccati o carezzati, colpiti o feriti, quello che è accaduto è stato un patologico “non essere”, una sottrazione esistenziale che ci ha lasciato impoveriti, dispersi. 

Abbiamo concepito l’esistenza attraverso il vuoto, fisico e morale, un grido imploso che ha attraversato piazze deserte e pelli svuotate.

Ma la partita umana si compie inevitabilmente e inesorabilmente sulla carnalità e il Corpo ha continuato a desiderare, il Cuore ha seguitato ad avere contezza del compiuto e di quanto ancora da compiere: amori, lavoro, nascite, inizi, rotture magari… 

In assenza, l’epifania della vita che realmente si desiderava.

Corpo che ora ritorna, forse non prepotente come vorrebbe, inevitabilmente segnato dall’accaduto, ma presente, glorioso nella sua imperfezione. 

Ritorna e lo fa in molti modi: ripopolando spazi, ricostruendo legami, ridefinendo ritmi. Tutto come se fosse nuovo, inedito. Spinto dalla necessità di non cancellare quello che è stato ma dargli un senso profondo.

Anche a livello artistico è possibile intercettare un cambiamento, percepire una variazione.

Affaticati, forse perfino nauseati da un eccesso di tecnologia, stiamo assistendo a un grande ritorno, una autoritaria riconferma della pittura, vocabolario materico che squarcia l’asfissia delle norme e prova a ridefinire la logica delle cose. 

Mai veramente assente, sempre costante a tracciare un percorso, la pittura adesso domina la scena con un doppio passo, doppia presenza: Corpo materico, segno, soffio vitale (avrebbe detto Artaud), esperienza che si fa concreta, magmatica; Corpo soggetto al centro della riflessione, indagine insistita, rivendicazione di un futuro, corpo che in queste tele evolve, si tramuta, si apre a evoluzioni organiche e sentimentali.